martedì 20 aprile 2010

cella 211


Dopo un esordio che ritengo pressoché sconosciuto, Daniel Monzon ci ha regalato un vero gioiello, possente ed impetuoso, incastonato in una struttura narrativa semplice e lineare che si lascia seguire con facilità, dando corpo e voce ad una delle tante storie “assurde” che diventano realistiche proprio grazie a quella meravigliosa macchina dei sogni rispondente al nome di cinema. Vi potreste mai immaginare un secondino che, per una strana serie di cause, deve assumere l’identità di un detenuto e che, nel volgere di un brevissimo spazio di tempo, subisce tante e tali di quelle esperienze da vedere completamente sconvolta la sua vita, fino al punto di guidare con profonda convinzione una rivolta carceraria, di uccidere un collega reo di avergli ammazzato la moglie incinta e di stringere un sotterraneo ma sincero rapporto di stima e di amicizia con il peggiore dei reclusi? Eppure Daniel Monzon riesce a rendere verosimile tutto questo. Bellissimo, nella sua cruda violenza estetica. Indimenticabile lo sguardo fiero e magnetico di Malamadre – Luis Tosar. A dimostrazione di come, per costruire grandi film, non siano indispensabili grandi capitali od effetti speciali. A differenza de "Il profeta", che sfrutta abilmente una prospettiva claustrofobica sulla quale costruire una sottile sensazione di angoscia che ti accompagna dall'inizio alla fine
By MYMOVIES

La scultura raccontata da Rudolf Wittkower


Il Wittkower ci descrive con molta accuratezza le tecniche e le "storie " che si celano dietro le opere del Vasari, Canova, Cellini, Michelangelo e Bernini. L'opera è di autorevole fattura, infatti l'autore è stato docente del Warburg institute di Londra poi alla Columbia University di New York. Il quest'opera vengono posti all'attenzione del lettore una serie di informazioni sulle tecniche di realizzazione delle opere, tipiche dell'autore preso come soggetto. Opera altamente piacevole adatta non solo agli addetti ai lavori.

lunedì 12 aprile 2010

la braciola...


Sognai d’essere una braciola, grande quanto un pugno, ed ero nel sugo assieme ad altre braciole come me. Sentivo il calore attorno, sentivo i miei compagni vicino, li, nel calore del sugo, tutti con i loro stecchini, ognuno a fare la propria parte.

Qualcuno di noi era un po’ più grande dell’altro, qualcuno con uno stecchino in più, qualcuno il suo stecchino lo aveva perso, ma eravamo lì, eravamo tutti assieme, tutti uguali dentro, ognuno intimamente abbracciato dalla mortadella, tutti a lavorare all’unisono. Ognuno a donar parte di sé affinché il sugo in cui eravamo consumanti la nostra esistenza s’addensasse, facendoci sentire tutti parte d’un insieme. Tutti partecipi della realizzazione della nostra esistenza, tutti orgogliosi di dar gusto e sostanza al nostro stare assieme. Sentivamo crescere e migliorarsi il profumo della libertà del nostro gesto. S’addensava il nostro caldo abbraccio e inebriava il dintorno, cosicché ovunque giungeva l’odore della nostra impresa, ovunque era percepibile la forza del nostro gesto, di quella nostra intensa esperienza d’unione.

Sognai d’esser felice. Sognai d’aver dentro una energia nuova, una felicità eroica figlia di uno sforzo comune, uno sforzo compiuto in intima prossimità con altri esseri come me, sapevo che solo non avrei potuto creare quell’energia, quell’energia che, come profumo, correva a parlare di noi, della nostra esistenza, della nostra esperienza. Noi che tutti assieme ci eravamo arricchiti, avevamo dato gusto alla nostra esistenza estendendola oltre i confini della nostra pentola, creando qualcosa come un vento caldo che corre a parlar di noi, sconfiggendo la nostra finitezza. Eravamo degli eroi. E avevamo vinto. Sognai d’esser felice, davvero.

Quando mi svegliai, vidi mia madre sorridere, sembrava la donna più bella del mondo. Aveva cucinato il ragù. Le sorrisi. Io lo sapevo che in quella pentola c’era molto di più, non solo sugo, non solo braciole, non solo ragù, era un’idea, un abbraccio, era qualcosa di più. Sorrisi.

Iniziò così un’altra ottima domenica!

Giuseppe Siracusa

martedì 6 aprile 2010

Mine vaganti


Ferzan Ozpetek, l'Amodovar italiano, ritorna a far centro con un film con un pizzico in più di commedia ma mantenedo sempre i contenuti. Sempre presenti gl'elementi cardine delle storie del regista, come il dramma proveninte dal passato, la ricerca della felicità e l'omosessualità come tabù in un mondo borghese.

Ferzan gioca dunque sulla forza del sentimento, rendendo palese, ancor più che negli altri film, la sua filosofia sull’immortalità degli affetti, dei legami; nulla finisce, tutto ritorna se c’è amore. Un amore che elude gli schemi classici, un amore che va oltre l’esclusività e la possessività, un amore che, finalmente, rende liberi. Sarà vero? Non importa, siamo al cinema e quello che conta è l’emozione. Ed in questo film si sorride, si ride, si piange, ci si commuove profondamente. Tocca le nostre corde più profonde con poesia e vorremmo essere li, tutti insieme, nella splendida scena del ballo tra tutti i personaggi del film, in un abbraccio liberatorio. Ozpetek, infatti è nel finale che così ci accarezza risvegliando l’istinto consolatorio e fanciullesco che è in noi, sottolineando che a fianco del coraggio e di una verità che rende liberi, si deve dare sempre spazio al sogno.
“Ci vuole più coraggio a dire quello che si sente che a stare zitti”. Il regista fa dire ad Elena Sofia Ricci, vissuta, come altri personaggi del film, tacitando le espressioni più vere dell’emozione, censurando la propria modalità di essere o nascondendosi in una non consapevolezza di se. Questo è infatti un film sulla verità che deve venire fuori per liberare, per esplodere e le mine vaganti sono quelle persone che innescano questo processo di verità, si sacrificano per esso. Qualche volta si finisce per vivere per gli altri, ma gli altri quanto veramente vogliono che viviamo per loro? E quanto non ci vorrebbero per quello che siamo?
Ozpetek si conferma un grande regista.

"Non farti mai dire dagli altri chi devi amare, e chi devi odiare.Sbaglia per conto tuo, sempre."
La trovo una frase splendida e con molto senso

"Gli amori impossibili non finiscono mai. Sono quelli che durano per sempre."
Siamo sempre troppo insoddisfatti, e ciò che non possiamo avere lo cerchiamo sempre con ostinazione e con un certo autolesionismo

"Non devi avere paura di lasciare, tanto le cose importanti nella vita non ti lasceranno mai"
Crudele condanna!